ADES. Segreti e curiosità su Aldilà e dintorni nelle Religioni e Culture mondiali

Giorgio Nadali, ADES. Segreti e curiosità su Aldilà e dintorni nelle Religioni e Culture mondiali

Youcanprint, Lecce, 2024, Ebook, ISBN: 979-12-227-4011-9

€7,99

È il mistero più grande dell’umanità, dopo quello di Dio. Dato che il numero di persone non credenti nel mondo si attesta tra il 2% e il 13% e che gli agnostici raggiungono il 23% possiamo dire che oggi circa due terzi dell’umanità crede che la fine della vita terrena non sia la fine della propria esistenza (e di chi ci è caro). In sostanza, continueremo a vivere e saremo trasformati nell’eternità. Il modo di come questo avverrà dipende dalle credenze delle singole fedi religiose e culture. Tutte le religioni credono in un aldilà. Si va dall’annullamento di sé, come una goccia che cade nell’oceano del Nirvana induista e buddhista, sino alla risurrezione del proprio corpo immortale secondo il Cristianesimo, cioè il 30% della popolazione mondiale. Nessuno – tranne forse i duecentottanta milioni di depressi nel mondo e gli ottocentomila suicidi all’anno – ha fretta di verificare di persona cosa c’è dopo la morte. Fatto sta che tutti lo scopriremo, e ci auguriamo il più tardi possibile perché amiamo la vita, altro grande mistero in cui siamo avvolti. In questo libro unico nel suo genere: aldilà e curiosità, scienza, fisica quantistica e aldilà; paradiso e inferno nelle religioni, anima, risurrezione e reincarnazione, nuovi movimenti religiosi e aldilà, angeli e demoni nelle culture mondiali, esorcismi, panorama delle credenze religiose sull’aldilà, riti funerari nelle principali religioni mondiali e molto altro ancora. Un libro da leggere da vivi, con i piedi per terra e due occhi verso uno dei misteri più grandi dell’Umanità, perché, come diceva Goethe: “Quelli che non sperano in un’altra vita sono morti perfino in questa”.

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RECENSIONE DI “AFFARI ITALIANI”


La forza del Mandala

Il mandala, un tempo riservato solo agli iniziati, ed oggi così diffuso, è un’opera grafica buddhista che favorisce non solo la concentrazione in un punto per coloro che lo realizzano, ma anche per quelli che lo contemplano.

“Mandala” è una parola sanscrita sovente tradotta come “universo”. La si trova originariamente in certe culture millenarie come in India ed, in particolare, nella tradizione del Buddha. Difatti, il Risvegliato ha trasmesso una via di liberazione riguardo la sofferenza e questa Via è distinta generalmente in parecchi livelli di lettura. Per esempio, così come a scuola apprendiamo inizialmente l’alfabeto, poi la grammatica ed infine l’arte del dissertare, il Buddha Shakyamuni ha insegnato prima un Veicolo Fondamentale (oggigiorno ritrovato in certi aspetti della tradizione pali del Theravada), poi un Veicolo Universale (o Mahayana, oggigiorno praticato in certi paesi come il Vietnam, la Cina o il Giappone) ed infine un Veicolo Tantrico che offre una moltitudine di mezzi abili che permettono una pro-gressione più veloce sulla Via del Risveglio.

Questo ultimo Veicolo, chiamato anche “Vajrayana”, è accettato largamente come proveniente dal Buddha stesso e si è trasmesso mediante i millenni dall’India fino ad altri paesi come la Corea, il Giappone e, soprattutto, il Tibet, a tal punto che questa forma molto completa della tradizione buddhista ha finito per prendere il nome di “Buddhismo tibetano.” Quale è allora il posto del mandala in questa tradizione dei Mantra segreti? Senza rivelare tuttavia gli insegnamenti dati solo ai discepoli, è possibile dare alcune chiavi riguardo ai simboli che esso contiene: questa rappresentazione manifesta le qualità risvegli-ate di questo o quel Buddha che troneggiano nel suo centro su di un loto.

Questa loto è un seggio in seno ad un palazzo che possiede quattro porte corrispondenti alle direzioni cardinali; la porta dell’est è sempre quella in basso perché il discepolo iniziato entra prima da lì, così come il sole appare all’est. All’esterno del palazzo quadrato si trovano i giardini e, poi tutto il resto di questa “terra pura”, cioè dai segni di buon auspicio ai gonfalone di vittoria, dagli alberi ai gioielli che esaudiscono i desideri, ecc. Infine troviamo tre cerchi periferici di cui il cerchio di petali di loto ricorda la purezza fondamentale di questo universo perfetto. Così come il loto nasce nella melma, attraversa l’acqua e gli altri elementi e sboccia ín un fiore immacolato e profumato, il mandala, sebbene esistente tra gli universi, senza essere sporcati dal ganga dell’ignoranza – causa delle nostre sofferenze – manifesta la purezza essenziale del Risveglio. Questo Risveglio è indistruttibile tanto quanto il diamante e questo è perché il secondo cer-chio concentrico è quello dei vajras o scettri adamantini.

Si può vedere infine, l’ultimo cerchio di fuoco che si distende all’infinito perché un mandala e privo di limiti assegnabili e realizza una saggezza primordiale che allontana l’oscurità dall’ignoranza: l’inafferrabilità di un sé innato. Essendo un universo tutto intero, un mandala si presenta in tre dimensioni e queste possono essere ricordate dallo spessore più pronunziato dei primi motivi in rilievo al centro e, poi, meno presente sull’esterno. Si possono trovare dei mandala sotto forma di costruzioni di boschi tridimensionali oppure dipinti su tela ancora sempre come supporti di meditazione, ma i mandala di sabbia sono al tempo stesso più conosciuti e più ragguardevoli per il loro aspetto effimero: benché immateriale, il mandala è rappresentato dagli accostamenti di colori diversi di sabbia che sarà, poi, tradizionalmente dispersa per mostrare l’impermanenza dei fenomeni prodotti. Il supporto rimasto vuoto, permette ai discepoli un ritorno alla natura essenziale di tutta l’esistenza: la vacuità dell’esistenza intrinseca dei fenomeni. Per cui le sabbie benedette sono versate, poi, in un corso d’acqua naturale per simboleggiare il ricominciare che si inserisce nell’impermanenza: la causalità. Così, la vacuità è manifestata dalla causalità e la causalità non saprebbe esistere al di là della vacuità.

Giorgio Nadali


Ricchi e Buddhisti

di Giorgio Nadali

Molti pensano che il Buddismo rifiuti la ricerca delle comodità materiali e dei piaceri della vita e si occupi solo di sviluppo spirituale. Il raggiungimento del Nirvana è infatti il suo obiettivo. Tuttavia, il Buddha era molto attento sul fatto che la stabilità economica sia essenziale per il benessere e la felicità dell’uomo. D’altra parte – prima della vita monastica – era un principe che viveva nel lusso.

Nel testo sacro buddhista Anguttaranikaya A.II. (69-70) il Buddha afferma che ci sono quattro tipi di felicità derivante dalla ricchezza:

1) Atthisukha – La felicità della proprietà.

2) Anavajjasukha – La felicità derivata dalla ricchezza che si guadagna per mezzo del  giusto sostentamento, cioè non derivante dalla vendita di armi pericolose, o di macellazione di animali e  vendita di carne, di vendita di alcolici o di vendita di esseri umani (ad esempio, la schiavitù e la prostituzione) e non derivante dalla vendita di veleni.

3) Ananasukha – la felicità deriva dal non avere debiti. È la libertà finanziaria!

4) Bhogasukha – la felicità del condividere la propria ricchezza. Questo tipo di felicità è un concetto estremamente importante nel Buddhismo.

Anche se il Buddha vide che la stabilità economica come importante per la felicità dell’uomo, mise in luce anche il lato dannoso della ricchezza. Vide che i desideri e le inclinazioni naturali dell’uomo trovano nella ricchezza ampio spazio per queste propensioni. Eppure, a quanto pare, i desideri non possono mai essere pienamente soddisfatti come è indicato nel Ratthapalasutta (M.II.68) dove è scritto: “Il mondo non è mai soddisfatto ed è sempre schiavo del desiderio”. Il Dhammapada (vs. 186-187) sottolinea anche questa insaziabilità nell’uomo: “Non è da una pioggia di monete d’oro sorge la contentezza nei piaceri sensuali”.

Il Buddha ha scritto un prescrizione completa per il raggiungimento della prosperità e della felicità, senza mai deprecare il godimento sensuale dei laici. E ‘in questa sutta (aforisma) che il Buddha ha sostenuto quattro condizioni che, se soddisfatte darebbero una prosperità e felicità:

  1. Utthanasampada – risultato in stato di vigilanza. Il Buddha ha descritto questa qualità come l’abilità, la perseveranza e l’applicazione di una mente curiosa nei modi e nei mezzi con cui si è in grado di organizzare e svolgere un lavoro con successo.
  2. Arakkhasampada – realizzazione nell’attenzione.
  3. Kalyanamittata – Il godimento della compagnia di buoni amici che hanno le qualità di fede, virtù, generosità e saggezza.
  4. Samajivikata – il mantenimento di una vita equilibrata. Quest’ultima condizione richiede di non essere eccessivamente euforici o abbattuti di fronte al guadagno o alla perdita, ma di avere una buona idea del proprio reddito e delle spese per vivere secondo i propri mezzi. Ad un uomo si consiglia di non sprecare la sua ricchezza come se si scuotesse scuotere un albero di fico per ottenerne un frutto, così facendo tutti i frutti sull’albero, maturi e acerbi, cadrebbero a terra e andrebbero nei rifiuti. Si consiglia anche di non accumulare ricchezza senza goderne, morendo di fame.

Questo consiglio per quanto riguarda l’acquisizione della ricchezza materiale è seguito da quattro condizioni per il proprio benessere spirituale, che garantirebbero una rinascita felice nella prossima vita: avere le qualità di fede, (saddha) virtù, (sila) carità (dana) e saggezza (panna).

Uno sguardo attento alle due serie delle quattro condizioni che abbiamo visto, mostrano chiaramente che il principio base è che si dovrebbe mantenere un equilibrio tra il progresso materiale e quello spirituale. Dirigere la propria attenzione al proprio benessere spirituale insieme alle proprie attività quotidiane è una pausa alla sempre crescente avidità. L’avidità immobilizza e sviluppa la scontentezza. L’accumulare ricchezze fine a se stesse è condannato dal Buddha.

Quando la ricchezza non è condivisa e viene utilizzata solo per soddisfare i propri scopi egoistici,  porta al risentimento nella società. È chiaro in questa sutta il collegamento tra etica e felicità.

Inoltre la ricchezza è paragonata ad un serbatoio d’acqua con quattro punti attraverso i quali l’acqua (ricchezza) si dissipa: Dissolutezza, dipendenza da alcolici, gioco d’azzardo e compagnia di malfattori. I quattro ingressi che riforniscono di acqua (ricchezza) il serbatoio sono la pratica degli opposti di quanto è stato detto sopra, come astenersi dalla dissolutezza, dipendenza di alcolici, gioco d’azzardo e compagnia di malfattori.

Secondo la Alavakasutta (Sn. P.33), la ricchezza è acquisita dallo sforzo unito alla forza del braccio e del sudore della fronte.

Il Buddha ha inoltre osservato che l’acquisire ricchezza non dovrebbe essere scoraggiato da freddo, caldo, mosche, zanzare, vento, sole, rettili, che muoiono di fame e di sete e che si dovrebbe essere pronti a sopportare tutte queste difficoltà. L’inattività e sottrarsi alla fatica non è il modo migliore per riuscire a guadagnare prosperità.

Guadagnare ricchezza attraverso la vendita di liquori inebrianti, armi nocive, farmaci, veleni o animali da abbattere sono modi condannati dal Buddha. Rientrano nella categoria dei mezzi di sussistenza sbagliata. Il sostentamento dev’essere ottenuto attraverso mezzi leciti, senza violenza.  Buddha ha dichiarato che la ricchezza di coloro che accumulano senza danneggiare gli altri, è come quella di un’ape itinerante che raccoglie il miele senza danneggiare fiori.

Nella Dhananjanisutta  il venerabile Sariputta afferma che nessuno può sfuggire ai risultati terribili di mezzi illeciti di sostentamento, dando la ragione a chi si è impegnato ad adempiere i propri doveri. La Dhammikasutta della Nipata Sutta dice: “Lascialo doverosamente mantenere i suoi genitori e praticare un commercio onesto. Il padrone di casa che osserva questo strenuamente andrà agli dei chiamati Sayampabha“.  I Sayampabha sono deva (divinità) tra i quali sono presenti anche uomini giusti che hanno mantenuto i loro genitori e non hanno fatto commerci illeciti.

Nel Parabhavasutta del Nipata Sutta, il Buddha ha sottolineato una condotta etica per evitare la perdita della ricchezza. Sono innumerevoli i discorsi che consigliano di osservare la Pancasila – i cinque precetti, che si basano sul principio del rispetto e di attenzione per gli altri. Questi implicano che non si deve mettere a repentaglio gli interessi degli altri, che non si deve privare qualcuno di ciò che appartiene legittimamente a lui, perché è chiaro che i beni di un uomo sono alla base della sua felicità.

 


Il Kama Shastra, la scienza sacra vedica del sesso

   Il Kamashastra è l’insieme dei testi sacri che riguardano il kama (amore), la sessualità e il godimento sensuale. Kama (amore) più shastra (insegnamento). Il Kamashastra, o scienza dell’erotismo, è attribuita al dio Prajapati, che l’ha trasmessa a Nandi, il toro del dio Shiva. Poi è passata a Svetaketu, a Sankha e a Babhravya. Quest’ultimo ha condensato la tradizione del Kamashastra in 150 capitoli suddivisi in sette adhikarana (sezioni) che formano la base della scuola sessuale induista. Gli adhikarana sono: principi generali, corteggiamento, unione sessuale, matrimonio, come rubare la moglie che appartiene ad altri uomini, le prostitute, le pozioni, i sortilegi, gli afrodisiaci, i mantra (preghiere), gli strumenti sessuali. I testi più importanti della Kamashastra sono il Kamasutra del monaco Vatsyayana (450 d.C.), l’Ananga-Ranga (“Teatro del dio dell’amore”) di Kalyanamalla (1460-1530 d.C.). Lo scopo di quest’ultimo non è quello di promuovere la promiscuità sessuale, ma l’armonia familiare (eccezione fatta per l’adhikarana che spiega come rubare le mogli degli altri). Altri importanti testi del Kamashastra comprendono il Kuttani-mata (“Lezioni di un ruffiano”) di Damodaragupta, il Samaya-matrika (“Il breviario della prostituta”) di Ksemendra, il Rati-rahasya (“Misteri della passione”) di Koka e il Pankasayaka (“Le cinque frecce”) di Jyotirisa (o Jyotirishvara). Esistono centinaia di testi popolari di Kamashastra nei quali le divinità indù si dilettano in varie posizioni sessuali come paradigmi per le prestazioni erotiche umane.

    «Gli uomini si dividono in tre classi: gli uomini lepre, gli uomini toro e gli uomini cavallo secondo la grandezza del loro lingam [pene]. Anche la donna, secondo la profondità della sua yoni [vagina], è una cerva, una giumenta o un’elefantessa. Da ciò segue che vi sono tre unioni uguali, cioè tra persone che si corrispondono in dimensione, e sei unioni inuguali, quando al contrario le dimensioni non si corrispondono. Si tratta dunque di nove casi in tutto: Uguali: Lepre/ Cerva, Toro/Giumenta, Cavallo/Elefantessa; Inuguali: Lepre/Giumenta, Lepre/Elefantessa, Toro/Cerva, Toro/Elefantessa, Cavallo/Cerva, Cavallo/Giumenta”. Così inizia la parte seconda del Kamasutra. Kama sta per piacere, amore, sesso, desiderio. Sutra sta per trattato. Le tre principali scienze umane indù sono le shastra: 1) Dharmashastra, la legge sociale, nota come Leggi di Manu o Manavadharmashastra. 2) La Arthashastra, la scienza politica e economica, attribuita a Kautilya. Un importante istituto universitario, il Chanakya Institute of Public Leadership basa i suoi insegnamenti proprio sulla Dharma Shastra indù per formare i suoi leader e manager. 3) Il Kamashastra, la scienza erotica. Le tre shastra rispecchiano i tre obiettivi della vita umana, i purushastra: (o trivarga): Kama (piacere sensuale, non solo sessuale), Dharma (legge morale) e Artha (Beni materiali). In sostanza sono la pietà (dharma), il profitto (artha) e il piacere (kama). Oppure “società, successo e sesso” o ancora “dovere, dominazione e desiderio».

Il Kamasutra (350 d.C.) non riguarda solo posizioni sessuali, ma anche pratiche indicazioni su come trovare un partner, commettere adulterio, mantenere il potere nel matrimonio, usare droghe e gestire cortigiane. Contiene anche dei geniali consigli di seduzione maschile, come ad esempio: «Strofinandosi con unguento tratto dalla pianta emblica myrabolans si acquista il potere di conquistare le donne a piacere» oppure: «Un osso di pavone o di iena, coperto d’oro e attaccato alla mano destra, rende simpatico un uomo», o ancora: «Mangiando polvere di nelumbrium speciosum, di loto azzurro e di mesna roxburghii, con burro chiarificato e miele, un uomo si rende piacevole». Sono presenti anche delle alternative tutte naturali al “Viagra” come: [l’uomo che vuole aumentare la sua potenza sessuale] «mescola del riso con uova di passero, poi, dopo aver fatto bollire il tutto nel latte, vi aggiunge del ghee [burro chiarificato] e del miele» oppure «latte zuccherato, radice della pianta uchchata, pepe, sciaba e liquerizia». Contiene anche pratici «consigli su come guadagnare denaro», come ad esempio: «Manterrà medici e ministri con qualche scopo». Le famose posizioni sessuali sono sessantaquattro, la maggioranza delle quali però richiede delle abilità acrobatiche.

La Kamashastra non si limita al Kamasutra, scritto da un monaco che viveva in assoluta castità, Mallanaga Vatsyayana. Altri importanti testi della scienza della passione sono: Il Ratirahasya o Kokashastra, scritto da Kokkaya (XIII sec. d.C.) dedicato al “come trarre il massimo dal sesso, goderselo e mantenere felice una donna”. Nei suoi quindici pachivede (capitoli) con ottocento versetti contiene pratici consigli sui baci, le donne straniere, sui tipi fondamentali di donne e sul “come guadagnare la fiducia di una ragazza”. Il “Rati” della parola Ratirahasya significa “fare l’amore” e occorre sempre ricordare che il ruolo della donna nel Kamashastra è sempre dominante. L’Anangaranga di Kalyanmalla (XVI sec. d.C.) contiene preoccupanti avvertimenti come «La donna di cui  i due piccoli alluci non toccano il suolo mentre cammina, perderà certamente il marito, e durante la sua vedovanza non sarà in grado di mantenere se stessa casta». Infine completano la libreria erotica del Kamashastra indù il Nagarasarvasva di Bhikshu Padamashri, il Pankasayaka di Jyotirishvara (XIV sec. d.C.) e il Ratiratnapradipika di Praudha Devaraja.

Giorgio Nadali


Il Naraka, l’inferno Indù e Buddhista

Nel codice di Manu (induista) si parla non di uno, ma di ben ventuno inferni diversi, ciascuno col suo nome. Ciascun inferno ha una sua pena. È escluso che Dante Alighieri si sia ispirato al Codice di Manu nella sua descrizione delle pene infernali, ma è strano notare la somiglianza dei vari inferni buddhisti e induisti con le pene del contrappasso dantesco. È fuori discussione che l’inferno sia caldo. Questo però solo nella visione cristiana. Infatti, Gesù parla di «fuoco eterno» dell’inferno (Matteo 25,41). Il Codice di Manu parla anche di otto inferni freddi, oltre a otto inferni caldi. Nel Naraka Huhuva si battono i denti. È proprio chiamato “Il Naraka dei denti che battono”. Stranamente si parla di “stridore di denti” infernali anche nel Vagello di Luca 13,28 e in altri sei passi evangelici.

Il Taoismo conosce un rito dei denti che battono, il K’ou-ch’ih. Il Naraka Nirarbuda è l’inferno freddo delle vesciche scoppiate. Nel Naraka Aṭaṭa i dannati hanno così freddo che non fanno altro che balbettare «at, at, at», da cui il nome: il Naraka del tremito. Il Codice di Manu descrive anche la durata della vita infernale. Non è eterna, come nella visione cristiana e islamica, ma è notevolmente lunga. L’inferno caldo Naraka Pratāpana, quello «dell’immenso calore» per intenderci, dura un numero astronomico di anni: 42.467.328 per dieci alla decima. In sostanza più anni d’inferno che del numero delle stelle nell’universo; tutti ospiti di Yama, il padrone di casa del naraka. No, non è Satana.

L’Avichi è l’inferno peggiore. I naraka freddi e caldi sono circondati da sedici inferi secondari. I dannati sono triturati, spezzettati, mangiati vivi da uccelli col becco di ferro, tagliati a pezzi dalle affilatissime foglie degli alberi infernali. Una speranza però c’è.

Il rito dell’ullambana. Letteralmente significa “salvare i defunti appesi sottosopra”. Questo rituale a favore dei defunti è praticato sia dall’Induismo, sia dal Taoismo, sia dallo Shintoismo. Il termine ullambana deriva dal sanscrito avalambana: e significa “appeso a testa in giù”. È questo il tormento dal quale si vogliono salvare i defunti. In Cina è praticato il quindicesimo giorno del settimo mese buddhista (agosto) per aiutare gli spiriti affamati (preta) mediante offerte di cibo, spesso in forma simbolica e di carta (vedi Jīnzhǐ). In Giappone lo urabon si tiene il 15 luglio e il 15 agosto.

Giorgio Nadali


Festival dell’Oriente

Immergersi nelle culture e nelle tradizioni di un Continente sconfinato. L’11, 12, 13 Marzo ed il 18, 19, 20 Marzo, il Festival dell’Oriente torna a Torino, presso il complesso fieristico Lingotto Fiere e il 26, 27, 28 Febbraio e 4, 5, 6 Marzo, a Bologna, presso il complesso fieristico di Bologna Fiere.

Mostre fotografiche, bazar, stand commerciali, gastronomia tipica, cerimonie tradizionali, spettacoli folklorisitici, medicine naturali, concerti, danze e arti marziali si alterneranno nelle numerose aree tematiche dedicate ai vari paesi in un continuo ed avvincente susseguirsi di show, incontri, seminari ed esibizioni.

Interagisci e sperimenta gratuitamente decine di terapie tradizionali, visita il settore dedicato alla salute e al benessere con i suoi padiglioni dedicati alle terapie olistiche le discipline bionaturali, lo yoga, ayurvedica, fiori di bach, theta healing, meditazione, spazio vegano, reiki, massaggi, ci kung, tai chi chuan, shiatsu, tuina, bio musica, rebirthing, integrazione posturale, e molte altre ancora.

Lasciati trasportare nella magia dell’oriente: India, Cina, Giappone, Thailandia, Corea del Sud, Indonesia, Malesia ,Vietnam, Bangladesh, Mongolia, Nepal, Rajasthan, Sri Lanka, Birmania, Tibet ect…

Un settore dedicato all‘incontro ed al confronto tra indusimo, buddismo, confucianesimo, zen, cristianesimo, taoismo, scintoismo, sciamanesimo ed altre religioni e filosofie con seminari, workshops e conferenze tematiche per sperimentare la possibilità di un approcio diretto ad esperienze e modelli di vita alternativi.
Le religioni e le filosofie orientali ed occidentali si confrontano al Festival dell’Oriente, alla ricerca di un modello di sviluppo dell’uomo e la sua dimensione nell’universo!!!
Saranno di scena al Festival alcuni fra i massimi esponenti delle filosofie e religioni orientali ed occidentali italiani ed internazionali come Angela Volpini, i Monaci Tibetani, i Monaci Shaolin, il Maestro Ramacandra Das, Brahmana Vaisnava, gli Hare Krishna, i rappresentati di Osho, Zen, la capanna dei tamburi, lo sciamano italiano e molti altri.

Sarà possibile sperimentare nuove discipline ed entrare in contatto con numerosi Maestri ed esperti provenienti da tutto il mondo e con numerosi rappresentanti di tutte le tradizioni per dare la possibilita a chi ne fosse interessato di intraprendere un cammino di consapevolezza e crescita interiore, o anche solamente per interfacciarsi con altre realtà possibili insite nell esssere umano indelebilmente alla ricerca della pienezza del proprio essere e del completamento della propria realtà interiore.

Redazione


I segreti del Nirvana

Nel Buddhismo il nirvana è l’estinzione (nir) di ogni desiderio (vana), lo scopo finale dell’esistenza e la liberazione finale dal dolore: «Tutto è dolore Il dolore si combatte eliminando il desiderio». In psicoanalisi il «Principio del Nirvana» è quello che esprime la tendenza a raggiungere uno stato non conflittuale di libertà dal dolore o dalle preoccupazioni. Il desiderio di uno stato di oblio come manifestazione dell’istinto di morte. Per Schopenhauer è la negazione della volontà di vivere la cui esigenza scaturisce dalla conoscenza della natura dolorosa e tragica della vita. Il mokṣa è la liberazione in questa vita (jivanmukti) o escatologica (karmamukti) dal ciclo di reincarnazioni, il samsàra.

Il funerale tradizionale taiwanese con le spogliarelliste funebri

Dentro il padiglione funebre – nella casa del defunto – è fatto il lamento funebre e i famigliari strisciano fino alla bara. Il defunto ha lascito per tempo le sue ultime volontà e disattenderle può portare mala sorte alla famiglia. Il figlio maggiore indossa le vesti cerimoniali. A Taiwan le ballerine erotiche vengono ingaggiate per eventi come matrimoni e funerali. Molti pensano che spettacoli esotici e costosi siano onorevoli e facciano felici déi, spiriti e uomini. In casa viene offerto cibo al defunto per il suo viaggio. Poi viene deposto nella bara, piena dei soldi finti chiamati jīnzhǐ.

A Taiwan il rispetto per il defunto si misura con la folla, i soldi spesi per il funerale (in genere almeno quindicimila euro) e il numero più alto possibile di decibel della musica festosa. Una banda con majorettes, sassofoni, suonatori di tamburo trasportati da carrelli motorizzati e cantanti col microfono accompagnano il feretro. È chiamato il “carro di Buddha” e apre il corteo funebre. Poi segue il grande dragone di carta con i ballerini che fanno la danza del drago. Due bande musicali interamente femminili. Vengono cantati pezzi pop. A seguire, un altro carro allegorico funebre con palcoscenico mobile e ballerine di lap dance che la per giusta somma di denaro si spogliano durante il corteo funebre e anche davanti alla lapide. Tutto per fare felice il defunto. Nella bara viene fatta un’apertura affinché il defunto possa guardare le ragazze mentre ballano al cimitero. Poi è interrata. Nella cultura buddhista la morte non è affatto qualcosa di triste.

Il Naraka, l’inferno Indù e Buddhista

Nel codice di Manu (induista) si parla non di uno, ma di ben ventuno inferni diversi, ciascuno col suo nome. Ciascun inferno ha una sua pena. È escluso che Dante Alighieri si sia ispirato al Codice di Manu nella sua descrizione delle pene infernali, ma è strano notare la somiglianza dei vari inferni buddhisti e induisti con le pene del contrappasso dantesco. È fuori discussione che l’inferno sia caldo. Questo però solo nella visione cristiana. Infatti, Gesù parla di «fuoco eterno» dell’inferno (Matteo 25,41). Il Codice di Manu parla anche di otto inferni freddi, oltre a otto inferni caldi. Nel Naraka Huhuva si battono i denti. È proprio chiamato “Il Naraka dei denti che battono”. Stranamente si parla di “stridore di denti” infernali anche nel Vangelo di Luca 13,28 e in altri sei passi evangelici.

Il Taoismo conosce un rito dei denti che battono, il K’ou-ch’ih. Il Naraka Nirarbuda è l’inferno freddo delle vesciche scoppiate. Nel Naraka Aṭaṭa i dannati hanno così freddo che non fanno altro che balbettare «at, at, at», da cui il nome: il Naraka del tremito. Il Codice di Manu descrive anche la durata della vita infernale. Non è eterna, come nella visione cristiana e islamica, ma è notevolmente lunga. L’inferno caldo Naraka Pratāpana, quello «dell’immenso calore» per intenderci, dura un numero astronomico di anni: 42.467.328 per dieci alla decima. In sostanza più anni d’inferno che del numero delle stelle nell’universo; tutti ospiti di Yama, il padrone di casa del naraka. No, non è Satana.
L’Avichi è l’inferno peggiore. I naraka freddi e caldi sono circondati da sedici inferi secondari. I dannati sono triturati, spezzettati, mangiati vivi da uccelli col becco di ferro, tagliati a pezzi dalle affilatissime foglie degli alberi infernali. Una speranza però c’è.

Il rito dell’ullambana. Letteralmente significa “salvare i defunti appesi sottosopra”. Questo rituale a favore dei defunti è praticato sia dall’Induismo, sia dal Taoismo, sia dallo Shintoismo. Il termine ullambana deriva dal sanscrito avalambana: e significa “appeso a testa in giù”. È questo il tormento dal quale si vogliono salvare i defunti. In Cina è praticato il quindicesimo giorno del settimo mese buddhista (agosto) per aiutare gli spiriti affamati (preta) mediante offerte di cibo, spesso in forma simbolica e di carta (vedi Jīnzhǐ). In Giappone lo urabon si tiene il 15 luglio e il 15 agosto.

Funerale simulato da vivi

In Corea del Sud vi è il più alto tasso di suicidi al mondo. Dai 400.000 ai 779.000 nel mondo. Dei venti Paesi con alti tassi di suicidio, diciassette appartengono all’area dei Paesi più ricchi e benestanti; lo status socioeconomico delle persone non costituisce un fattore rilevante di rischio suicida; più una persona, o uno Stato, è religiosa e minore è il suo tasso di suicidio; i protestanti presentano un tasso di suicidio più alto degli ebrei, e questi, a loro volta, più alto dei cattolici .

La Cheonan la Coffin Academy (“Accademia della bara”) offre un programma che vuole prevenire i suicidi. Il momento più importante del macabro rituale è il finto funerale in cui i partecipanti sono chiusi ognuno nella propria bara posta in una grande sala. Si scatta la foto della persona da porre con un lumino sulla bara. Viene indossato il tradizionale sudario coreano e letto l’elogio funebre di ciascuno dei partecipanti. Il coperchio della bara è chiuso con un martello dopo che il partecipante vi si è sdraiato. Per dieci minuti ognuno riflette sulla propria vita, prima che la bara sia riaperta. Nessuno dei partecipanti al rito si è poi suicidato.

Monaci buddhisti robotizzati al cimitero

Al cimitero centrale di Yokohama (Giappone) la Elevator Systems Co. di Tokyo ha installato un monaco buddhista robot del valore di 380.000 dollari. Il monaco robot inizia automaticamente alle nove di mattina a intonare le preghiere di quattro sette buddhiste, sbattendo le palpebre e aprendo la bocca in base alla registrazione su cd rom. Svolge la funzione di quattro monaci. Un altro monaco robot è installato presso il tempio buddhista Hotoku-ji, a Kakogawa (Giappone). Di solito sta fermo in meditazione, ma quando i suoi sensori sentono l’avvicinarsi di un fedele, il monaco robot creato da Yoshihiro Motooka inizia a intonare un sutra, mentre lo shumoku (pestello) che tiene nella sua mano destra batte ritmicamente il suo bel mokugyo (gong di legno buddhista). Il robot è stato creato con parti usate di altri apparecchi. Il monaco robot è rasato, tiene in mano un rosario juzu ed è inginocchiato.

Giorgio Nadali


Zaoshen. Lo spirito della cucina

Nel Taoismo lo Spirito della Cucina (zaoshen), noto come “Sovrano della Cucina che controlla i destini e la buona fortuna” (dongchu siming dingfu zaojun), viene comunemente chiamato Sovrano della Cucina (zaojun), Re della Cucina (zaowang) o Duca della Cucina (zaowangye). La venerazione dello Spirito della Cucina esisteva già nell’antica Cina. La sezione “Riti sacrificali” (jifa) del Libro dei Riti (liji) dice che “il re stabilì sette culti per il popolo”, uno di questi era il culto dello Spirito della Cucina. Il Libro completo dell’adorazione dello Spirito della Cucina (jingzao quanshu), scritto durante la dinastia Qing, spiega che dopo aver riferito in Cielo, lo Spirito della Cucina torna nel santuario domestico preparato da ogni famiglia alla vigilia del nuovo anno (cinese). Le famiglie fanno offerte e accendono dei petardi.

Nei fogli di carta (vedi jīnzhǐ) che vengono bruciati durante i sacrifici rituali vi è sempre stampata l’immagine di una coppia di anziani, il Sovrano della Cucina e sua moglie. Il ventiquattresimo giorno del dodicesimo mese lunare di ogni anno, lo Spirito della Cucina sale in Cielo per riferire dei meriti e dei demeriti del mondo degli umani e per determinare la fortuna o la sfortuna delle persone. Quindi è meglio tenerselo buono bruciando incenso e offrendo sacrifici la notte precedente della sua ascesa.
Lo Spirito della Cucina gradisce zollette di zucchero, riso arrostito, noccioline tostate, caramelle di sesamo e gnocchi di riso glutinati. In questo modo lo stomaco dello Spirtto della Cucina sarà pieno e non riferirà in Cielo le malefatte degli umani. La gente lo chiama “riferire le buone azioni al Cielo e tenere sicurezza nel mondo dei mortali”. Buon appetito!

Giorgio Nadali


Rituali estremi. 1. Nudismo sacro e mortificazione pubblica del pene. V.M. 18

ATTENZIONE! La mortificazione pubblica del pene è una pratica religiosa indù pericolosa! NON provate questa pratica, riservata a sadhu indù allenati! OLTRE non si assume alcuna responsabilità per i lettori che volessero mortificare pubblicamente il loro pene!

Sadhu significa “sant’uomo”. Sono gli asceti induisti. I Naga Baba sono i guerrieri asceti. Girano nudi (“naga”), ma non c’è nulla di erotico in tutto questo. Anche perché sono coperti della cenere bianca dei luoghi di cremazione su tutto il corpo. La nudità rappresenta l’ideale del sadhu e trasformano in potere psichico ogni pulsione sessuale. I Naga Baba fanno degli esercizi per aumentare la loro forza interiore, mortificando in pubblico il loro pene. Ad esempio con un esercizio detto chabi. Consiste nel tenere forzatamente il proprio pene in posizione abbassata. Un altro è il lingasana. Il sant’uomo si appende almeno trenta chili al pene e solleva questo peso con la sola forza del suo super prepuzio dotato di poteri sovrumani. Si tratta di un’elaborazione dell’esercizio yogico chiamato kara-lingi. Il suo scopo è di eliminare la capacità erettile dell’organo genitale e incanalare le forze sessuali in forma ascetica, trascendendola. In una parola, di aumentare la kundalini.

Una volta erano usate grosse catene, oggi delle corde con enormi mattoni appesi al pene. Non provate questo esercizio a casa se non siete dei Naga Baba, se siete circoncisi o non siete dotati di un super prepuzio. È facile vedere i Naga Baba praticare questo esercizio in pubblico durante il più grande raduno religioso del mondo: il Khumb Mela. Oltre cento milioni di fedeli in tre mesi presso il fiume sacro Gange, ogni dodici anni. Altri Naga Baba hanno fatto voto di non abbassare mai il loro braccio sinistro per dodici anni oppure di non sedersi mai. Uno di loro dorme in piedi, sorretto da corde, da dieci anni.

Il Gianismo (religione dell’India) ha due sette principali. Gli Svetambara (“vestito bianco”) rappresentano l’ala più liberale. Loro vi accompagneranno vestendo almeno un indumento. Ma quando il dovere lo impone, quelli della setta più radicale dei Digambara (“vestito di cielo”) vanno in giro nudi integrali. Questo per seguire l’esempio dello storico fondatore del Giainismo: Mahavira. (599 a.C.). Seguire il loro esempio religioso nudista vuol dire essere un perfetto nirgrantha, cioè “il nudo”. I Digambara sono solo 155.000 su quattro milioni di giainisti in India.
Anche i monaci jinakalpin, della setta Svetambara, circolano completamente nudi e usano il palmo delle mani come scodella. Questo fa parte dei voti monastici (mahavratas) che prevedono anche la castità assoluta, la proibizione di nuocere a qualsiasi essere vivente (insetti e microbi compresi), rubare e mentire. Comportarsi diversamente provocherebbe una reincarnazione, allontanando la salvezza (mokṣa).

Giorgio Nadali


Specchi sacri

Lo specchio, forse per le suggestioni esercitate dall’oggetto in sé, ha un ruolo di rilievo in molti sistemi filosofici e religiosi, dove funge ora da emblema di saggezza, ora da strumento dell’esperienza mistica, ora da tramite di teofanie. Gli sciamani siberani ad esempio hanno avuto l’abitudine di appendere agli abiti specchi metallici a simboleggiare, in analogia con alcuni aspetti della mitologia giapponese, il sole e la luna.

Rientra nel discorso il ruolo, ora metaforico e simbolico ora magico e religioso, che allo specchio è stato variamente attribuito in Cina da parte di quel complesso di speculazioni filosofiche, pratiche ascetiche e fideismi misticheggianti cui generalmente assegniamo il nome di Taoismo. La nitidezza di un miraglio su cui la polvere non facci apresa costituisce una metafora della purezza immacolata della speculazione filosofica e troviamo anche l’invito a considerare l’oggetto il modello ideale dell’attività psichica del saggio: l’uso della mente dell’uomo perfetto rassomiglia a uno specchio, privo di intenzioni e desideri, riflette e non trattiene padroneggiando quindi le cose senza riceverne danno. Nella letteratura mitologica giapponese troviamo il ruolo di chiaroveggenza e onniscenza legato allo specchio. Nel misticismo taoista allo specchio è associata la spada, magicamente efficace per scacciare spiriti malevoli e calamità, assieme ad altri amuleti.

Nello Shintoismo i fedeli per farsi ascoltare dai kami (le divinità) usano il kagami (che si pronuncia kagàmi, non kàgami…) il termine giapponese dello specchio sacro. Gli specchi kagami sono fatti di rame, argento, ferro o vetro e possono avere forme diverse, rotonde, quadrate, elittiche o con otto petali come il kagami hakkōkyō, con otto archi come il kagami hachiryō. Insieme alle spade e i gioielli, agli specchi è stato attribuito un significato religioso profondo e usato in rituali sin dall’antichità, in base alle sue misteriose capacità di riflettere ogni cosa. Lo specchio sacro di bronzo (yata no kagami) è tuttora presente anche nelle insegne imperiali del Giappone (sanshu no jingi).

kagami

Lo specchio sacro è da sempre usato negli antichi rituali mitamashiro. I kami (le divinità) abitano volentieri negli specchi e di conseguenza il kagami è riverito come oggetto di culto (shintai) all’interno dei santuari shintoisti. Con lo sviluppo nel tardo periodo Heian (Fujiwara) della religione che combina kami e buddha (shinbutsu shūgō) si sviluppò anche la pratica di disegnare kami o figure buddhiste a loro associate sugli specchi, conle immagini note come mishōtai. Queste immagini vengono collocate nei santuari shintoisti come oggetti di culto e dedicati ai santuari dai fedeli (sankeisha)

All’interno di rituali volti alla personale affiliazione (kechien) con le divinità. Gli specchi kagami vengono anche dedicati ai santuari come tesoro degli stessi, ma anche gettati nell’acqua come parte di rituali di divinazione dei kami dell’acqua (suijin), e come utensili nelle cerimonie di inaugurazione dei lavori per la costruzione degli edifici. Lo jôtôsai è infatti il rito per gli déi architetti. È un rituale effettuato dai carpentieri shintoisti (in Giappone) durante la costruzione di un edificio. I muratori adorano gli déi dell’architettura e pregano per il completamento del loro lavoro senza problemi. Il rituale ha inizio quando tecnicamente i pilastri di colmo del tetto vengono eretti e collocati.

Nello stato di New York – a Wappingers Falls – esiste la Cappella degli Specchi Sacri (Chapel of Sacred Mirrors) creata da Alex Grey.

Giorgio Nadali