Le opere di misericordia corporale. 3. Vestire gli ignudi

«Nulla è scandaloso quanto gli stracci e nessun crimine è vergognoso quanto la povertà» diceva il drammaturgo irlandese George Farquhar. “Mi avete visto nudo e mi avete vestito”. A parlare così è Gesù stesso nel Vangelo di Matteo (25,36). Il digiuno (spirituale) che Dio vuole è la carità di chi si prende cura di chi non ha nemmeno degli indumenti con i quali coprirsi. Dice infatti il profeta Isaia: “Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: … Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne?” (Isaia 58,6-7). Secondo l’organizzazione Humana “L’ONU ha stimato che il bisogno annuo pro capite di indumenti è di almeno 2 chili. In Mozambico la produzione nazionale di abbigliamento riesce a coprire il 10% della domanda; un altro 10% è coperto dalle importazioni. Questo significa che il restante 80% della popolazione deve servirsi dell’offerta di indumenti usati. Humana invia gli abiti raccolti in Africa, in particolare al centro di smistamento di Beira in Mozambico. La distribuzione gratuita creerebbe solo dipendenza e non favorirebbe la crescita economica. Qui, dopo la selezione, il materiale è distribuito gratuitamente solo nei casi d’emergenza. In condizioni normali i vestiti sono destinati alla vendita al dettaglio nei punti vendita di Humana o all’ingrosso ai commercianti della provincia. Questi rivendono poi gli indumenti nei mercati locali. Quali benefici traggono le popolazioni locali dall’arrivo degli abiti usati?

La vendita dei vestiti, soprattutto nelle zone rurali, innesca un ciclo economico che stimola il commercio e lo sviluppo, e crea posti di lavoro. A Beira, in Mozambico, la consorella locale di Humana (ADPP Mozambico) gestisce un centro di smistamento degli abiti che giungono dall’Europa. Solo qui i dipendenti coinvolti nell’intera gestione dell’attività (smistamento, vendita diretta, vendita all’ingrosso, distribuzione nei casi d’emergenza, amministrazione) sono 220. In totale in Mozambico le persone addette allo smistamento in tutti i centri di ADPP sono 400. A questa cifra si sommano i circa 19.000 posti di lavoro indotti che si stima vengano creati grazie alla vendita ai piccoli mercanti impegnati in tutto il paese. L’acquisto da parte della popolazione locale di vestiti usati ha una ricaduta vantaggiosa e consistente sui programmi umanitari che Humana gestisce in Africa. Il ricavato della vendita viene riversato sulla gestione delle scuole primarie, professionali o magistrali; sulla prevenzione dell’HIV/AIDS, sull’avvio e sulla gestione delle piantagioni di anacardi, sugli interventi di aiuto all’infanzia.L’utile della vendita dei vestiti non rimane mai immobilizzato: questo è reimpiegato a favore dei beneficiari dei progetti di sviluppo che Humana gestisce localmente. Humana, in oltre 15 anni di attività, ha contribuito al sostegno dei progetti con l’invio di quasi 11 milioni di chili di indumenti per un valore economico di oltre 4 milioni di euro. Molte Caritas diocesane si occupa della raccolta di indumenti usati.

Secondo la Caritas  “la raccolta è un evento straordinario ma non è un fatto isolato, né un iniziativa a sé rispetto a quanto ordinariamente Caritas propone. L’invito a non gettare i vestiti usati ha, infatti, una valenza educativa. Gli indumenti usati non sono solo un rifiuto da smaltire, una fonte di inquinamento o un inutile ingombro per gli armadi: essi possono essere recuperati e diventare una vera e propria risorsa economica. Forte significato ha anche il gesto di chi passa a raccogliere ciò che è di avanzo per trasformarlo in una nuova risorsa. Tutto ciò quindi si può collegare con l’educazione ad uno stile di sobrietà che richiama ad un più complessivo modo di vivere”.

Il patrono dei mendicanti – San Martino di Tours – ha dato l’esempio intorno all’anno 350. Figlio di un ufficiale dell’esercito romano si arruola e mentre attraversa al Gallia scorge un mendicante. Taglia in due con la spada il suo mantello militare per coprire il povero. Martino si farà poi battezzare e diverrà sacerdote e poi vescovo di Tours, fondatore del monastero di Marmoutier.

Oggi  Su 2,2 miliardi di bambini al mondo, circa la metà, 1 miliardo vive in povertà. Secondo l’UNICEF, 22.000 bambini muoiono ogni giorno a causa della povertà. Nel 2011, 165 milioni di bambini sotto i 5 anni erano rachitici per l’impossibilità di alimentarsi sufficientemente. Le 300 persone più ricche del mondo dispongono della  stessa ricchezza dei 3 miliardi dei più poveri.  Alla “povertà estrema” appartiene chi vive con meno di 1,25 dollari: 1,4 miliardi di persone al mondo (75% donne). Dal 1990 ad oggi 1 miliardo di persone sono uscite dalla povertà. Aspettano un San Martino. Tutti possiamo esserlo.  

 Giorgio Nadali


Le opere di misericordia corporale 2. Seppellire i morti

Cremazione o sepoltura?

«Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annunzia il regno di Dio». Sono le parole di Gesù (Luca 9,60). L’urgenza dell’annuncio supera anche la pietà verso i defunti. Oggi nei grandi centri urbani la pratica della sepoltura è stata superata da quella della cremazione. La Chiesa Cattolica consente la pratica della cremazione ai suoi fedeli dal 1963, anno in cui Papa Paolo VI consentì la libertà di tale scelta approvando l’istruzione “De cadaverum crematione: Piam et constantem” emanata il 5 luglio 1963 in cui si afferma che “di fatto l’abbruciamento del cadavere, come non tocca l’anima, e non impedisce all’onnipotenza divina di ricostruire il corpo, così non contiene, in sé e per sé, l’oggettiva negazione di quei dogmi. Non si tratta, quindi, di cosa intrinsecamente cattiva o di per sé contraria alla religione cristiana “. Nel 1968 la Sacra Congregazione per il Culto Divino, con il decreto “Ordo Exsequiarum”, stabilì la concessione del rito e delle esequie cristiane a chi volesse scegliere la cremazione. A Torino e Milano si è arrivati al 50%. In Italia nel 2006 sono state effettuate 53.000 cremazioni, che corrispondono al 9,5% dei decessi (558.000 nello stesso anno), poco più di un quarto rispetto alla percentuale media dell’Unione Europea (36%). Oggi sono in funzione 45 crematori (31 al nord, 9 al centro e 5 al sud).

I vantaggi sono molteplici: Il corpo non deve essere esumato dopo 10 anni come d’obbligo per le sepolture (a meno di una costosissima tomba di famiglia), dato l’affollamento dei cimiteri; assenza dell’alto costo di una lapide; grazie all’urna cineraria si possono avere sempre con sé in casa – nell’ambiente dove ha sempre vissuto il defunto – le spoglie mortali dei propri cari. La Chiesa raccomanda vivamente che si conservi la pia consuetudine di seppellire i corpi dei defunti; tuttavia non proibisce la cremazione a meno che questa non sia stata scelta per ragioni contrarie alla dottrina cristiana» (can. 1176). Alla presentazione del “Nuovo Rito delle Esequie” è stato ricordato che “La celebrazione cristiana dei funerali è celebrazione del mistero pasquale di Cristo Signore”.  Questa affermazione posta nell’incipit delle Premesse generali al Rito delle esequie è la ragione di un aggiornamento che recepisce i profondi cambiamenti intercorsi nella società e nell’atmosfera culturale, dopo la prima edizione del 1974, sulla base della tipica del 1968.Che cosa è cambiato?

La società non è più mortale, anzi “la società post- mortale” ha messo a tacere la morte, grazie alla scomparsa dalla coscienza degli individui di questa esperienza. La spia più intrigante di tale cambiamento è proprio la rimozione della parola morte dal linguaggio corrente al punto che l’eufemismo è diventato il killer della morte. La morte, in realtà, è rimossa dall’orizzonte della vita quotidiana anche dal punto di vista percettivo mentre proliferano le sue spettacolarizzazioni mediatizzate, che trasformano in fiction anche la violenza reale che genera morte. I malati terminali stanno negli hospice, si muore per lo più in ospedale, ai bambini non si fa vedere la salma dei nonni perché potrebbe turbarli, e così si resta analfabeti e muti di fronte a un evento che è parte della vita, sia perché inevitabile, sia perché contribuisce a definirne il senso, a riordinare le priorità, a non confondere mezzi e fini, a vivere con pienezza, come un dono, ogni giorno che ci è regalato.

In un orizzonte immanente la morte è un fatto privato per le persone “comuni” o pubblico per le celebrità: un evento che si affronta in solitudine, senza strumenti di rielaborazione, perché il linguaggio della contemporaneità li ha cancellati dal suo vocabolario; oppure un evento che si consuma sotto i riflettori, un “media event” che fa notizia per un paio di giorni e regala un po’ di visibilità a qualche personaggio, o produce un po’ di “retorica della pietà a distanza”, come la chiamava Boltanski, ma che non aiuta chi resta a elaborare il “passaggio”. Rispetto a questo scenario contemporaneo, nelle società pre-secolarizzate la morte non era affatto una questione privata e la ricchezza e complessità dei riti funebri fin dall’antichità testimonia almeno due aspetti: il carattere di mistero della morte, che va quindi trattata con solennità e rispetto (un mistero che ci accoglie, non che ci schiaccia); e il carattere collettivo di questo evento, che riguarda il defunto, la sua famiglia, ma anche tutto il genere umano. Il rito funebre ha la funzione di accompagnare chi è direttamente colpito dal lutto, e di preparare chi lo sarà in seguito, in un cammino che non è né privato né pubblico ma, appunto, collettivo e comune: dove pubblico è legato alla visibilità, mentre comune ha una valenza antropologica: ciò che riguarda l’essere umano in quanto tale. Benveniste fa risalire il termine ‘rito’ a una radice che indica “ordine”: oggi diremmo che il rito è un “dispositivo”, un’interfaccia che traduce il disordine e il caos (della morte come pura fine, nonsenso, disperazione o rassegnazione) in un ordine di significati elaborati collettivamente.

Il rito delle esequie si iscrive in quelli che Van Gennep, e più tardi Victor Turner, hanno definito “riti di passaggio”. Nei momenti di “transito” (da uno status a un altro, come nel matrimonio, o dalla vita alla morte) è importante che la fase compresa tra il distacco e il ritorno a una nuova normalità sia accompagnata, perché è la fase più delicata: quella dove ci si può perdere, dove nelle società più tradizionali si rischia di mettere a repentaglio l’ordine sociale, mentre nelle società “liquide” come la nostra si accresce il senso di caos, mancanza di significati, nichilismo. Le esequie cristiane non sono uno spettacolo, anche se utilizzano la ricchezza e pluralità di codici della liturgia. La dimensione rituale non ha solo una funzione consolatoria, ma è un medium-messaggio che iscrive l’evento inevitabile della morte in una cornice di senso che, se non cancella la tristezza e il senso di perdita di chi resta, li libera però dall’angusto orizzonte del non senso che genera angoscia e disperazione, o un vuoto che corrode la vita. E la dimensione collettiva, sostenuta da questo orizzonte di speranza, ha una funzione fondamentale perché il portare insieme il peso della sofferenza, il com-patire, il ricordare insieme la persona defunta come testimoni del suo passaggio sulla terra, l’aiutarsi a vicenda a raccogliere l’eredità di chi ci ha lasciato, sono tutte modalità non spettacolari, ma profondamente umane e umanizzanti di vivere la profonda congiunzione di vita e morte nelle nostre esistenze, e di prepararci con fiducia al passaggio verso una nuova vita.

Giorgio Nadali


Le opere di misericordia corporale 1. Visitare gli infermi

“Perfino essere malato è piacevole quando sai che ci sono persone che aspettano la tua guarigione come una festa” – diceva Anton Checov. “Mi avete visto malato e siete venuti a visitarmi” (Matteo 25,43) diceva Gesù. L’assistenza agli infermi e il volontariato con i disabili è una grande opera di carità cristiana. Sicuramente “la carità copre una moltitudine di peccati” (1 Pietro 4,8). 27 sono le volte in cui la parola malattia è presente nella Bibbia, 7 la parola infermi, 8 la parola guarigione. Infinite sono invece le possibilità che abbiamo di mettere in pratica quest’opera di misericordia corporale. A parte la visita ad amici e parenti ammalati, l’opera di carità si svolge soprattutto verso coloro che no hanno legami con noi, ma attendono un sorriso e un po’ del nostro tempo per alleviare le sofferenze di una malattia. Sono infatti oltre 6 milioni le  persone che in Italia ogni giorno si mettono a disposizione degli altri e donano il proprio tempo (indagine Istat, CSVnet e Fondazione volontariato e partecipazione). Secondo una recente indagine del Quotidiano della Sanità, sette italiani su dieci dichiarano di stare bene. Meglio gli uomini delle donne. Ma quasi il 40% ha una malattia cronica. Il 71,1% degli italiani dichiara di essere in buona salute. In prevalenza si tratta di uomini (75,3%) mentre sembrano trovarsi in condizioni peggiori le donne che fanno registrare un dato fermo al 67,1%. Il 38,6% soffre di almeno una malattia cronica, per lo più ne sono affette le donne (41,4%). Il 43,2% dei malati cronici ritiene di essere in condizioni di buona salute. Anche in questo caso si nota una rilevante differenza di genere: gli uomini  a descriversi in questa situazione sono infatti il 49,3% a fronte del 38,3% delle donne. Le patologie più diffuse sono l’artrite (16,7%) e l’ipertensione (16,4%). La maggior parte delle persone che si definiscono in buona salute vivono a Bolzano (84,2%). Chi invece soffre di una o più malattie croniche risiede in prevalenza  in Umbria (42%), Abruzzo (23,4%) e Basilicata (23,4%). Il maggior numero di persone ipertese si trova in Abruzzo (18,5%) e, infine, la prevalenza delle persone che soffrono di artrite risiede in Basilicata (20,7%).  Analizzando il trend storico degli ultimi 12 anni si può notare come il numero di diabetici ed ipertesi sia costantemente cresciuto passando, rispettivamente, dal 3,9% al 5,5% e dal 11,8% al 16,4%. Dato in controtendenza quello delle persone con artrosi, in questo caso il 19,3% registrato nel 2001 è sceso fino al 16,7% rilevato nel 2012.

Tra le categorie professionali, la maggioranza degli individui in buona salute rientra tra gli studenti (94%), mentre il 76,4% dei pensionati soffre di almeno una malattia cronica. Il 39,1% degli italiani ha fatto ricorso a farmaci negli ultimi 2 giorni prima dell’intervista. La maggior parte di questi (43,5%) sono donne, mentre gli uomini si fermano al 34,5%. L’indagine Istat evidenzia come nei 3 mesi precedenti le interviste sono stati effettuati 2,025 milioni di ricoveri. In media ogni 1.000 persone ne sono state ricoverate 33,5. Ma vi sono differenze di genere. Se ogni 1.000 uomini ne sono stati ricoverati 29,1, per le donne il numero sale 37,7. Da evidenziare anche come tra gli uomini con un età superiore ai 70 anni i ricoveri sono molto maggiori rispetto a quelli delle donne nella stessa classe di età. Dal lato territoriale non sussistono particolari differenze tra le varie aree del Paese. Per quanto riguarda le giornate di degenza esse sono state 14,257 milioni con una media di degenza di 7 giorni (uomini 7,5 giorni in media, donne 6,7 giorni in media). A livello territoriale la media più alta di giornate di degenza si registra al Nord ovest con 7,8 giorni di degenza in media contro i 7,3 del Nord est, i 6,9 del Sud, i 6,6 del centro e i 5,9 delle isole. La Regione con la media più alta di giornate di degenze è il Veneto con 8,8 giorni, mentre quella con la media più bassa è l’Umbria con 5,4 giorni in media.

Tra le grandi occasioni di carità cristiana per “Visitare gli infermi” vi sono decine di associazioni di croci di pronto soccorso. Con un corso dai tre ai sei mesi e la disponibilità di una sera ogni dieci giorni è possibile aiutare tante persone che purtroppo hanno bisogno del soccorso di un’autoambulanza. Alla sera, di notte e nei festivi sono tutti volontari.

Per i disabili da notare la Fondazione Sacra Famiglia, il Piccolo Cottolengo Don Orione e la Fondazione Don Gnocchi.

Una grande associazione è la AVO, Associazione Volontari Ospedalieri. Il loro motto è ”Dai poco se doni la tua ricchezza. ma se doni te stesso, tu doni veramente”. L’Associazione Volontari Ospedalieri, rappresenta una delle più importanti e riconosciute realtà nel settore del volontariato socio-sanitario: può fare parte di questa associazione chiunque abbia il desiderio di mettere al servizio degli ammalati degenti negli ospedali parte del proprio tempo. Nata nel 1975, AVO di Milano si è presente in tutte le più importanti strutture ospedaliere, grazie all’impegno e alla dedizione di oltre 1.000 volontari. L’associazione è inoltre estesa su tutto il territorio nazionale, con 217 sedi riunite nella Federavo: in totale si contano circa 27.000 volontari.

Per assistere con un po’ del proprio tempo i bimbi in ospedale c’è l’ABIO. I volontari ABIO sono persone che ogni giorno offrono gratuitamente il loro aiuto. Accoglienza, gioco, ascolto, attenzione ai bisogni e collaborazione con il personale sanitario sono le parole che contraddistinguono il servizio ABIO. A ciascun volontario è chiesta la disponibilità a garantire un turno fisso di mezza giornata ogni settimana, oltre alla partecipazione alle riunioni di reparto e alla vita dell’Associazione e del gruppo.

Giorgio Nadali

 

 


Le opere di misericordia spirituale. 7. Pregare Dio per i vivi e per i morti

“La preghiera non è un ozioso passatempo per vecchie signore. Propriamente compresa e applicata, è lo strumento d’azione più potente”. (Mahatma Gandhi)

“Pregate incessantemente” scriveva San Paolo (1 Tessalonicesi 5,17). La preghiera è la forza spirituale del cristiano. Perché io respiro? Perché altrimenti morrei. Così la preghiera, diceva Kierkegaard. Pregare non è tanto ricordare a Dio ciò di cui abbiamo bisogno, ma ricordare a noi stessi di avere bisogno di Dio. È quindi anche un atto di umiltà. La parola “preghiera” è presente 148 nella Bibbia e l’ultimo passo è quello in cui l’Apostolo Pietro chiede di essere “moderati e sobri, per dedicarvi alla preghiera” (1 Pietro 4,7). Moderati e sobri non vuol dire depressi e nella miseria. Abbiamo un Dio grande e dobbiamo pregare in grande. Cosa significa? La gente è molto timida con Dio. Qualcuno le ha insegnato a non infastidirlo troppo. A tenere un basso profilo. Si ha come il timore di una preghiera “spudorata”. Anni di educazione religiosa ci hanno abituato a domandare a Dio il minimo indispensabile. “Signore, aiutami a tirare avanti”. Non è un a preghiera sbagliata. È una preghiera che limita Dio.

Per le cose ordinarie non c’è bisogno di un intervento divino. Nessuno ci ha mai insegnato a pregare in grande. Ad un grande Dio si chiedono cose grandi. Non è spudoratezza. È fede. Cosa vuol dire cose grandi? Vuol dire credere sul serio che a Dio nulla è impossibile (Luca 1,37) e credere nel suo amore che vuole donarci molto di più di quanto noi stessi osiamo sperare. Prova a pensare ad un sogno che ritieni irrealizzabile per la tua vita. Ecco, Dio vuole donarci ancora più di quello. Lo crediamo? Molti non lo credono affatto perché sono stati educati ad una fede mediocre. Pensano che ciò che hanno è già il massimo che Dio ha voluto donare per loro. Pensano che Dio non possa volere il nostro successo. Anzi, il successo personale è quasi un peccato. Meglio essere mediocri per essere di bravi cristiani. Invece, è un peccato proprio credere questo. Perché l’uomo vivente è la gloria di Dio e ciò che Dio vuole donarci di grande e “impossibile” è un segno agli altri del suo amore e della sua potenza. Non si dà una grande testimonianza andando in giro a testa bassa facendo credere al mondo che la tua fede in Cristo è quella della rassegnazione e del tirare a campare.

Un peccato contro lo Spirito Santo. Un peccato anche di ignoranza. La Parola di Dio dice: «cerca la gioia del Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore» (Salmo 36,4). I desideri del tuo cuore… Non barare. Tanto Dio li vede già, anche se non vuoi presentarglieli. Ora, qualcuno ti ha fatto credere che nessuno di questi desideri da presentare a Dio possa essere di natura materiale. Si confonde il benessere, anche economico con il materialismo (che è l’adorazione delle cose materiali). Invece Gesù ha incluso anche il pane quotidiano nelle richieste del Padre Nostro e il considerare la materia come impura è sconfinare in una filosofia che nulla ha a che fare col Cristianesimo. È gnosticismo. Eresia. Corpo, materia, esigenze terrene, benessere, successo, sesso, piacere e denaro non sono affatto cose “demoniache” in quanto tali, per il Cristianesimo. Sempre a patto di non confondere la fede con la bigotteria, ma Gesù aveva parecchio da ridire su quella dei “puri” Farisei del suo tempo. Probabilmente la maggioranza si ricorda il detto popolare «il denaro è lo sterco del diavolo» e le dichiarazioni di Gesù contro la ricchezza: «è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli» (Luca 18,25), «vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi» (Luca 18,22).

Si confonde il voto di povertà con il valore della povertà valido per ogni cristiano. Ci si è fatti l’idea che il Cristianesimo odi il benessere e il successo personali Si confonde il potere con l’arroganza e il successo con la prevaricazione. In realtà Gesù mette in guardia dalla ricchezza economica che – quando è abbondante – può facilmente può prendere il primo posto nel cuore della persona e sostituirsi a Dio. Per cui si confonde il valore della povertà evangelica con la miseria o la mediocrità e si crede che Dio voglia il minimo indispensabile per noi, non il massimo possibile.

La povertà è in realtà l’uso dei beni materiali con distacco in modo da non renderli un idolo. Il povero del Vangelo non è un pezzente. È la persona che sa godere dei suoi beni senza che questi prendano il posto di Dio nella sua vita. Anzi, con il suo benessere aiuta gli altri. Il mito del ricco uguale cattivo viene dall’invidia. Per cui non vi è nulla di male a chiedere a Dio una casa migliore, anzi, una casa decisamente molto bella o una professione di successo. Dio può aprire delle porte che agli uomini sono impossibili. Ma il limite di tutto ciò è proprio la fede di prega. Se chiedi a Dio di tirare a campare sino a fine mese, questo otterrai. Il fatto che Dio vuole e può molto di più per noi. Ma siccome non lo crediamo, non lo preghiamo neppure e di conseguenza non lo otterremo mai. E la frase d Gesù «Tutto è possibile per chi crede» (Marco 9,23) rimane una bella teoria spirituale che ben poco ha a che fare con la nostra vita concreta di ogni giorno. “La preghiera non può cambiare le cose rispetto a te, ma di sicuro cambia te rispetto alle cose” (Samuel M. Shoemaker). C’è una falsa vergona religiosa nei confronti di un Padre che – come ogni padre e molto di più – vuole il massimo per ogni singolo figlio e ha desideri e progetti di abbondanza per ognuno, non certo di mediocrità. Per cui dico la mi preghierina banale. Fammi tirare a campare come posso. Poi vado a giocare a Superenalotto e quant’altro. Se mi vergogno di chiedere a Dio il successo e il benessere, meglio chiederlo alla dea fortuna pagana, no?

Giorgio Nadali


Le opere di misericordia spirituale. 6. Sopportare le persone moleste

Scrive San Paolo: “Quando siamo tribolati, è per la vostra consolazione e salvezza; quando siamo confortati, è per la vostra consolazione, la quale si dimostra nel sopportare con forza le medesime sofferenze che anche noi sopportiamo” (2 Corinzi 1,6). “Vi esorto dunque io, il prigioniero nel Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore” (Efesini 4,1-2). Sopportare non è un atto di debolezza, ma di forza. Dio stesso ci sopporta. Sopportare è imitare la pazienza divina. Noi abbiamo dato al verbo sopportare un significato negativo.

Sopportare qualcuno non è amarlo. Si riferisce a qualcuno che ci infastidisce con il suo atteggiamento o comportamento e di cui faremmo volentieri a meno. In realtà per sopportazione qui va proprio intesa la pazienza che la carità cristiana esprime. La parola “pazienza” è presente 40 volte in tutta la Bibbia, di cui 26 nel Nuovo Testamento. San Giacomo scrive: “Prendete, o fratelli, a modello di sopportazione e di pazienza i profeti che parlano nel nome del Signore. Ecco, noi chiamiamo beati quelli che hanno sopportato con pazienza” (Giacomo 5,10-11). Per quanto possibile bisogna evitare di reagire a tutte le piccole provocazioni che subiamo, riservando una reazione solo ai casi veramente importanti o penalmente rilevanti, contemplati dall’articolo 660 del Codice Penale che punisce le molestie in genere, lo stalking con l’articolo 612bis. Queste molestie generano grave ansia alla persona. Come cristiani abbiamo il diritto di difenderci, ma mai quello di vendicarci.

Il 28 per cento delle donne e il 10 per cento degli uomini hanno riferito in un’inchiesta del 2007 di aver subito molestie sessuali che vanno comunque sempre denunciate. In Italia il numero di vittime del mobbing – cioè le angherie sul posto di lavoro – è intorno a 1 milione e 200 mila. Sino a 5 milioni se si considerano anche le famiglie. Non esiste una legislazione italiana di difesa. Comunque diversi comportamenti che caratterizzano il mobbing rientrano già in vari articoli del codice penale italiano (abuso d’ufficio, percosse, lesione personale volontarie, ingiuria, diffamazione, minaccia, molestie). La persona equilibrata sa reagire con coraggio e pazienza alle “normali e inevitabili” piccole frustrazioni quotidiane che ci vengono dal nostro prossimo. Il cristiano ha anche una forza in più che gli proviene dalla preghiera. La mitezza è quindi la forza sotto controllo.
Le persone moleste (fuori dai casi giuridicamente penali) da sopportare sono quelle arroganti (ma qui può essere equilibrata con l’opera di misericordia di “ammonire i peccatori”), le persone che si lagnano sempre (oltre che sopportate andrebbero nei limiti del possibile allontanate, perché trascinano in basso anche noi), le persone maleducate (spesso vari problemi psicologici o non vivono i valori cristiani), le persone ipercritiche (altro problema psicologico). Sopportare è avere compassione dei difetti altrui, ricordando che è facile guardare la pagliuzza che è nell’occhio del fratello, e non accorgersi della trave nel proprio (Luca 6,41). È utile ricordare che qualsiasi cosa facciamo troveremo sempre qualcuno che avrà da ridire. Se dovessimo dare peso a tutti non vivremmo più e perderemmo di vista la missione particolare che Dio ha in serbo per ciascuno di noi. Il Mahatma Gandhi diceva che la «nonviolenza è la forza dell’anima o l’energia della divinità dentro di noi. Diventiamo simili a Dio nella misura in cui realizziamo la nonviolenza». La nonviolenza non va confusa con la debolezza, ma è la forza sotto il controllo della ragione e del cuore. L’uomo e la donna veramente forti sono miti. Sanno essere tolleranti con tutti e sopportare le piccole frustrazioni. Gesù dice: «Beati i miti, perché erediteranno la terra» (Matteo 5,5). La sopportazione è la forza stessa di Gesù che dice: «prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Matteo 11,29). Per sopportare occorre quindi essere umili, non deboli. Nell’Ebraismo la nonviolenza può essere espressa dal concetto di chesed. È l’amore-gentilezza come virtù fondamentale, simile alla mettā buddhista e alla “misericordia” nella vulgata della Bibbia. Ci sono alcuni che stanno, essi, nella pace e mantengono pace anche con gli altri. “Ci sono invece alcuni che non stanno in pace essi, né lasciano pace agli altri: pesanti con il prossimo, e ancor più con se stessi. Ci sono poi alcuni che stanno essi nella pace e si preoccupano di condurre alla pace gli altri. La verità è che la vera pace, in questa nostra misera vita, la dobbiamo far consistere nel saper sopportare con umiltà, piuttosto che nel non avere contrarietà. Colui che saprà meglio sopportare, conseguirà una pace più grande”. (Tommaso da Kempis).

Giorgio Nadali


Le opere di misericordia spirituale. 5. Perdonare le offese

Se vuoi veramente amare, devi imparare a perdonare – diceva Madre Teresa di Calcutta. Il perdono è al cuore del messaggio del Vangelo. Ma cosa significa veramente perdonare? Come e quante volte perdonare? «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?» Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette». (Matteo 18,22). “Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi i vostri peccati” (Marco 11,25). “Perdonate e vi sarà perdonato” (Luca 6,37). «Se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (Matteo 6,15).

Sembra che gli uomini perdonino di meno delle donne, perché hanno meno capacità di immedesimarsi nei sentimenti degli altri, secondo Carmen Maganto, co-autrice dello studio pubblicato sulla Revista Latino americana de Psicologia, con Maite Garaigordobil, professore alla facoltà di Psicologia dell’università dei Paesi Baschi. Il perdono libera l’anima, rimuove la paura. È per questo che il perdono è un’arma potente (Nelson Mandela) ed è la qualità del coraggioso, non del codardo (Gandhi). Perdonare significa innanzi tutto rinunciare alla vendetta. Sarebbe giusto restituire in base al male ricevuto. Sì, è Parola di Dio nell’antico Testamento. Dio chiede agli Israeliti di essere equi nelle loro punizioni, con la legge del taglione: “Il tuo occhio non avrà compassione: vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede”. (Deuteronomio 19,21). Di questa legge noi ricordiamo solo “l’occhio per occhio” perché Gesù la cita nel Vangelo annunciando che (dopo dodici secoli) è superata : “Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra” (Matteo 5,38-39). Dobbiamo essere sinceri, a noi le due frasi sembrano paradossali. La maggioranza di noi non è poi così spietata come per la legge dell’occhio per occhio, vita per vita (pena di morte). Però rimaniamo di certo perplessi ascoltando le parole di Gesù. Come sarebbe a dire “non opporti al malvagio”? Gesù non chiede di farsi fare del male.

È lecito difendersi. Non è lecito vendicarsi, cioè restituire con gli interessi il male ricevuto. Possibilmente dobbiamo reagire solo per fatti realmente gravi, lasciando correre tutti le altre piccole “aggressioni” quotidiane. Quando reagiamo e ci difendiamo dobbiamo farlo senza odio. È poi sempre possibile pregare per chi ci ha ferito e poi cercare di dimenticare, perché “ciò che logora più rapidamente e nel modo peggiore la nostra anima è perdonare senza dimenticare” (Arthur Schnitzler). Perdoniamo quindi sia perché imitiamo il cuore di Dio, che veramente dimentica il nostro peccato, sia per noi stessi, perché il rancore ci blocca e non ci fa vivere bene. In sostanza perdoniamo per poter continuare a vivere, e Dio si prenderà cura di noi ricolmandoci con il suo favore, facendoci giustizia a suo modo e nei suoi tempi. Lo ha promesso. È bello e lecito “ricordarglielo” nella preghiera. In realtà lo ricordiamo a noi stessi: “E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra”. (Luca 18,7). È quindi anche un atto di fede in Dio che ci farà giustizia. Ricordiamoglielo: “Signore, Tu lo hai promesso!” E poi: “Aiutami a perdonare e ricolmami del tuo favore. Non ho rancore verso chi mi ha ferito, perché credo che tu sei ’vicino a chi ha il cuore ferito’, come dice il Salmo” (33,19). Perdonare è anche un grande esercizio di umiltà. Il cuore perdona spesso, la ragione qualche volta, l’amor proprio mai (Louis Dumur).

Rimane una perplessità. Perdonare “settanta volte sette”, come dice Gesù. Sette è il numero dell’infinito. Settanta volte sette è un modo paradossale ebraico di dire: “Sempre, senza limiti”. E qui scatta il nostro orgoglio. Secondo un detto popolare meridionale: “Qui nessuno è fesso!” Se continuo a perdonare quello/a se ne approfitta di me! In effetti, è meglio che Dio non ragioni così con noi. Come fare? Per noi perdonare vuol dire non odiare mai e rinunciare sempre alla vendetta. Penso che l’unica vendetta senza odio sia quella divina: “Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina. Sta scritto infatti: ‘A me la vendetta, sono io che ricambierò, dice il Signore’” Romani 12,19). Certo, possiamo evitare che qualcuno se ne approfitti di noi, senza odiarlo: “Siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” (Matteo 10,16). Secondo lo studio già citato sono emersi elementi che pare rendano più facile perdonare: il rimorso mostrato da chi ha offeso, e il non serbare rancore, per chi è vittima del torto. L’ambiente familiare gioca un ruolo importante nella trasmissione dei valori etici, che si portano poi fino alla scuola e facilitano l’insegnamento al perdono. «Ognuno di noi perdona in proporzione della sua capacità di amare». (François de La Rochefoucauld). «Dimenticare le devastazioni del peccato, dirai, nessuno lo può; resta il rimorso, tenace, lancinante. Se la tua immaginazione ti presenta l’immagine distruttrice del passato, sappi che Dio non ne tiene conto. L’hai capito? Per vivere il Cristo in mezzo agli altri, uno dei rischi più grandi è il perdono. Perdonare e di nuovo perdonare, ecco ciò che cancella il passato e immerge nell’istante presente. Portatore del nome di Cristo, cristiano, per te ogni istante può diventare pienezza… Non si perdona per interesse, perché l’altro cambi. Sarebbe un calcolo miserabile che non ha nulla da spartire con la gratuità dell’amore. Si perdona a causa del Cristo» (Frère Roger di Taizé).

C’è una grande saggezza psicologica nell’insistenza della tradizione cristiana che il perdono proviene attraverso la Croce di Cristo. Perché in quest’uomo, ingiustamente processato, torturato e inchiodato a una croce, il cristiano vede dischiudersi le qualità del Dio che è attivo in tutto ciò che avviene. Egli vede nell’uomo crocifisso Dio che attua interamente la sua identificazione con gli uomini e con le donne, a prescindere dalla loro responsività. Se Dio arriva a tanto nel tollerare gli uomini così come sono, allora un uomo dovrebbe essere capace di tollerare se stesso… Bunyan, scrivendo sul cristiano, descrive la propria esperienza. Dopo essere stato tormentato per molti anni da un sentimento di colpa, imparò attraverso la croce a smettere di rifiutare se stesso e ad entrare nella pace del perdonato, la pace di coloro che accettano se stessi perché credono che Dio li abbia accettati… Ogni persona, per realizzare il proprio potenziale come essere umano, ha bisogno di affrontare e accettare il lato cattivo, apparentemente vergognoso, di se stesso. La realizzazione del perdono divino, se correttamente compresa, permette agli uomini di accettarsi; mette termine alla guerra civile all’interno della personalità. Questa pace interiore, questa realizzazione di potersi accettare, segue spesso la realizzazione di essere accettati dagli altri.

Giorgio Nadali


Le opere di misericordia. 4. Consolare gli afflitti

“Beati gli afflitti, perché saranno consolati”. È la seconda beatitudine che proclama Gesù (Matteo 5,4). La consolazione viene da Dio perché, come recita il Salmo 33 ”il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito egli salva gli spiriti affranti”. “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio”. (2 Corinzi 1,3-4). Consolare è un atto di grande carità. San Paolo scrive a Filemone: “la tua carità è stata per me motivo di grande gioia e consolazione” (Filemone 7). Le occasioni di mettere in pratica questa grande opera di misericordia sono infinite. “Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia”, promette Gesù (Giovanni 16,20). Abbiamo un Consolatore che opera per mezzo nostro, lo Spirito santo.

Possiamo consolare con le parole, la preghiera, il consiglio, con una presenza silenziosa e naturalmente con le opere di misericordia corporale. Il modo migliore è ovviamente quello di donare noi stessi, cioè il nostro tempo. È un modo più profondo e personale che donare denaro e cose materiali. Basta alle volte una parola di speranza, soprattutto basata sulla Parola con la P maiuscola, cioè quella dii Dio. Chiunque può essere afflitto per moltissimi motivi, soprattutto in questi tempi di crisi. Va distinta l’afflizione dalla malattia psicologica e dalla depressione. Dobbiamo comprendere che in forza del nostro battesimo siamo tutti testimoni della speranza che è in noi (1Pietro 3,15) e operatori dell’amore di Dio. Consolare gli afflitti che Dio pone sul nostro cammino di vita è quindi un dovere per chiunque si definisca cristiano. Oggi si sta diffondendo anche il coaching spirituale, una nuova professione laica riconosciuta per legge dallo Stato italiano. Ma per consolare una persona basta poco. Come diceva Madre Teresa di Calcutta “non sapremo mai quanto bene può fare un semplice sorriso”.

Papa Francesco scrive nella sua enciclica Deus caritas est (Dio è amore): “L’amore — caritas — sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre ci saranno anche situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per il prossimo. Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un’istanza burocratica che non può assicurare l’essenziale di cui l’uomo sofferente — ogni uomo — ha bisogno: l’amorevole dedizione personale. Non uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma invece uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto. La Chiesa è una di queste forze vive: in essa pulsa la dinamica dell’amore suscitato dallo Spirito di Cristo.

Questo amore non offre agli uomini solamente un aiuto materiale, ma anche ristoro e cura dell’anima, un aiuto spesso più necessario del sostegno materiale. L’affermazione secondo la quale le strutture giuste renderebbero superflue le opere di carità di fatto nasconde una concezione materialistica dell’uomo: il pregiudizio secondo cui l’uomo vivrebbe « di solo pane » (Mt 4, 4; cfr Dt 8, 3) — convinzione che umilia l’uomo e disconosce proprio ciò che è più specificamente umano […] La carità, inoltre, non deve essere un mezzo in funzione di ciò che oggi viene indicato come proselitismo. L’amore è gratuito; non viene esercitato per raggiungere altri scopi. Ma questo non significa che l’azione caritativa debba, per così dire, lasciare Dio e Cristo da parte. È in gioco sempre tutto l’uomo. Spesso è proprio l’assenza di Dio la radice più profonda della sofferenza. Chi esercita la carità in nome della Chiesa non cercherà mai di imporre agli altri la fede della Chiesa”.

Donare un sorriso rende felice il cuore. Arricchisce chi lo riceve senza impoverire chi lo dona. Non dura che un istante, ma il suo ricordo rimane a lungo. Nessuno è così ricco da poterne far a meno nè così povero da non poterlo donare. Il sorriso crea gioia in famiglia, dà sostegno nel lavoro ed è segno tangibile di amicizia. Un sorriso dona sollievo a chi è stanco, rinnova il coraggio nelle prove e nella tristezza è medicina. E se poi incontri chi non te lo offre, sii generoso e porgigli il tuo: nessuno ha tanto bisogno di un sorriso come colui che non sa darlo. (P. John Faber)

Giorgio Nadali


Le opere di misericordia spirituale. 3. Ammonire i peccatori

“Se un tuo fratello pecca, rimproveralo; ma se si pente, perdonagli”. (Luca 17,3). L’ammonimento non è facile. Si rischia di sembrare presuntuosi e saccenti, superiori agli altri. In realtà è un atto di carità. Gesù stesso lo chiede: “Se il tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all’assemblea; e se non ascolterà neanche l’assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano” (Matteo 18,15-17). Il papa emerito Benedetto XVI scrisse nella quaresima 2012 che «prestare attenzione» al fratello comprende altresì la premura per il suo bene spirituale… la correzione fraterna in vista della salvezza eterna.

Oggi, in generale, si è assai sensibili al discorso della cura e della carità per il bene fisico e materiale degli altri, ma si tace quasi del tutto sulla responsabilità spirituale verso i fratelli. Non così nella Chiesa dei primi tempi e nelle comunità veramente mature nella fede, in cui ci si prende a cuore non solo la salute corporale del fratello, ma anche quella della sua anima per il suo destino ultimo. Nella Sacra Scrittura leggiamo: «Rimprovera il saggio ed egli ti sarà grato. Dà consigli al saggio e diventerà ancora più saggio; istruisci il giusto ed egli aumenterà il sapere» (Pr 9,8s). Cristo stesso comanda di riprendere il fratello che sta commettendo un peccato (cfr Mt 18,15). Il verbo usato per definire la correzione fraterna – elenchein – è il medesimo che indica la missione profetica di denuncia propria dei cristiani verso una generazione che indulge al male (cfr Ef 5,11). La tradizione della Chiesa ha annoverato tra le opere di misericordia spirituale quella di «ammonire i peccatori».

E’ importante recuperare questa dimensione della carità cristiana. Non bisogna tacere di fronte al male. Penso qui all’atteggiamento di quei cristiani che, per rispetto umano o per semplice comodità, si adeguano alla mentalità comune, piuttosto che mettere in guardia i propri fratelli dai modi di pensare e di agire che contraddicono la verità e non seguono la via del bene. Il rimprovero cristiano, però, non è mai animato da spirito di condanna o recrimina-zione; è mosso sempre dall’amore e dalla misericordia e sgorga da vera sollecitudine per il bene del fratello. L’apostolo Paolo afferma: «Se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito correggetelo con spirito di dolcezza. E tu vigila su te stesso, per non essere tentato anche tu» (Gal 6,1). Nel nostro mondo impregnato di individualismo, è necessario riscoprire l’importanza della correzione fraterna, per camminare insieme verso la santità. Persino «il giusto cade sette volte» (Pr 24,16), dice la Scrittura, e noi tutti siamo deboli e manchevoli (cfr 1 Gv 1,8). E’ un grande servizio quindi aiutare e lasciarsi aiutare a leggere con verità se stessi, per migliorare la propria vita e camminare più rettamente nella via del Signore. C’è sempre bisogno di uno sguardo che ama e corregge, che conosce e riconosce, che discerne e perdona (cfr Lc 22,61), come ha fatto e fa Dio con ciascuno di noi.

Oggi la cultura relativista rende molto difficile l’opera di correzione del prossimo. Anche tra i cristiani si è insinuata l’idea di una morale personalizzata, per cui ognuno agisce secondo la sua coscienza e non ci si può permettere di intromettersi nelle scelte altrui. Vi è la convinzione diabolica del “fai ciò che vuoi”, se ti fa stare bene, allora fallo. Per cui ci vuole una grande attenzione alla Parola di Dio, preghiera, umiltà per correggere soprattutto con l’esempio, ma anche ammonire coraggiosamente e amorevolmente con le parole, senza umiliare o ferire. Sì, siamo i guardiani dei nostri fratelli. L’opposto della frase irresponsabile ed egoista di Caino: «Sono forse il guardiano di mio fratello?» (Genesi4,9). Per cui, “ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza”, come scrive San Paolo (Colossesi 3,16). Chi prega e chiederà consiglio allo Spirito Santo saprà farlo nella maniera corretta, senza voltarsi vigliaccamente dall’altra parte davanti al peccato altrui, ma anche senza ergersi a giudice arrogante e indisponente.

Giorgio Nadali


Le opere di misericordia spirituale. 2. Insegnare agli ignoranti

“Insegnami la dolcezza ispirandomi la carità, insegnami la disciplina dandomi la pazienza e insegnami la scienza illuminandomi la mente”. Secondo Sant’Agostino le tre cose più importanti da insegnare sono la carità, la disciplina e la scienza – intesa come conoscenza. Il verbo insegnare è presente 35 volte in tutta la Bibbia. Gesù stesso insegnava ogni giorno (Marco 14,49). Insegnare è un dovere per i genitori: “ai vostri figli insegnate l’obbligo di fare la giustizia e l’elemosina, di ricordarsi di Dio, di benedire il suo nome sempre, nella verità e con tutte le forze” (Tobia 14,8). La Chiesa è fondata sull’insegnamento degli Apostoli. Questa preghiera, che si suole recitare prima di una sessione di studio d’interesse comune, è arricchita dall’indulgenza parziale. “Siamo qui tutti davanti a te, o Spirito Santo Signore nostro, inceppati, è vero, dai nostri peccati, ma pur spontaneamente riuniti nel tuo nome. Vieni a noi, resta con noi, degnati di riempire le anime nostre. Insegnaci ciò che dobbiamo trattare, come procedere, e mostraci ciò che dobbiamo decidere, affinché con il tuo aiuto possiamo in tutto piacerti. Sii l’unico ispiratore delle nostre risoluzioni, l’unico a renderle efficaci, tu al quale soltanto, con il Padre e con il Figlio, risale ogni gloria”. Secondo la Chiesa Cattolica è concessa l’indulgenza parziale al fedele che impartisce o riceve l’insegnamento della dottrina cristiana.

Colui che, in spirito di fede e carità, impartisce l’insegnamento della dottrina cristiana, può conseguire l’indulgenza parziale estesa anche al discepolo. Insegnare è un’opera di misericordia perché la sapienza avvicina a Dio, quando è presente in un cuore umile. “Tu vuoi la sincerità del cuore e nell’intimo m’insegni la sapienza” (Salmo 50,8). “Il timore del Signore è il principio della scienza; gli stolti disprezzano la sapienza e l’istruzione” (Proverbi 1,7). “Fondamento della sapienza è il timore di Dio, la scienza del Santo è intelligenza”. (Proverbi 9,10). L’ignoranza non è l’analfabetismo. L’ignorante è la persona che non conosce, in particolare in materia di fede, la situazione mondiale è grave. Due terzi della popolazione analfabeta mondiale sono composti da donne. 771 milioni è il numero di analfabeti nel mondo, di cui due terzi sono donne. 137 milioni di giovani e bambini non sanno scrivere né leggere, di cui 61% ragazze. L’opera di insegnare agli ignoranti è legata alla prima opera di misericordia spirituale – consigliare i dubbiosi – e da questa deriva.

Nella Storia della Chiesa moti santi si sono dedicati all’insegnamento. I Santi Cirillo e Metodio hanno inventato l’alfabeto per i popoli slavi, il Cirillico tutt’ora usato in molti Paesi dell’Est, tra cui la Russia. Le prime scuole popolari gratuite in Italia sono state volute da San Giovanni Bosco e dallo spagnolo San Giuseppe Calasanzio, che scriveva: «È missione nobilissima e fonte di grandi meriti quella di dedicarsi all’educazione dei fanciulli, specialmente poveri, per aiutarli a conseguire la vita eterna. Chi si fa loro maestro e, attraverso la formazione intellettuale, s’impegna a educarli, soprattutto nella fede e nella pietà, compie in qualche modo verso i fanciulli l’ufficio stesso del loro angelo custode, ed è altamente benemerito del loro sviluppo umano e cristiano». L’alfabeto per i sordomuti è stato inventato da Padre Ottavio Assarotti del suo stesso ordine religioso. Tuttavia gli “ignoranti” non sono solo i bambini. In Italia vi sono 37 centri dell’Unione nazionale per la lotta contro l’analfabetismo (UNLA).

Vi è però un’ignoranza molto più diffusa. Quella religiosa. Benedetto XVI osservò che uno dei “più gravi problemi della nostra epoca è l’ignoranza religiosa nella quale vivono molte persone, compresi i fedeli cattolici”. Una situazione che va affrontata con decisione, come è stato ribadito nel Sinodo sulla nuova evangelizzazione. “Scarsa conoscenza della persona di Gesù Cristo e un’ignoranza della sublimità dei suoi insegnamenti” di valore universale “nella ricerca del significato della vita e del bene” – ha detto l’attuale papa emerito. In Italia l’ora di religione ha sempre meno iscritti – specie nei grandi centri urbani – e gli insegnanti non vengono sempre difesi da una cultura laicista, proprio da parte di chi dovrebbe sostenerli, cioè le curie che li mandano in prima linea nelle scuole. Uno dei mali delle curie malate di burocrazia, come ha detto Papa Francesco. Una situazione drammatica. Secondo il quotidiano “Avvenire” (dei vescovi italiani) Meno di un italiano su tre riesce a citare correttamente tutti e quattro gli evangelisti (Matteo, Marco, Luca e Giovanni). Neppure uno su quattro sa indicare le tre virtù teologali (fede, speranza e carità). Figurarsi quando c’è da addentrarsi fra le pieghe della Scrittura.

Domandare chi ha dettato i dieci Comandamenti significa vedersi citare in otto casi su dieci un nome impossibile. E poi sentirsi dire che la «mano» è stata quella di Mosè (22%) o di Gesù (9%), finché non si arriva alla risposta giusta: Dio (indicato dal 49%). Del resto appena il 29% ammette di leggere la Bibbia. La frequenza alle funzioni è bassa: solo l’11% (“fedelissimi”) ci va tutti i giorni o più volte a settimana, mentre i frequentatori settimanali (“fedeli”) arrivano al 24%. “Occasionali”, che si recano poche volte l’anno, il 18% e “distaccati”, che entrano in chiesa solo per eventi come matrimoni, funerali o battesimi, arrivano al 27%. Nonostante la fede conclamata, regna una diffusa ignoranza sulla religione, come emerge da domande mirate su temi come la Bibbia e i Vangeli. Da un sondaggio Gfk Eurisko commissionato dalla Chiesa valdese, e dal volume “Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia” a cura di Alberto Melloni (Il Mulino, 2014) circa il 76% si dichiara “credente”; “atei” e “non credenti” arrivano al 15%, gli “agnostici” al 4% e quelli “in ricerca” il 5%. I cattolici praticanti sanno citare almeno uno dei dieci comandamenti (il 43,2%): vanno meglio dei non praticanti (34,90%) ma peggio dei fedeli di altri culti (60,70%). Scarsa la conoscenza del Catechismo: il 24,70% dei praticanti sa citare le virtù teologali, percentuale più alta della media (17,20%). Scuola e università forniscono una formazione religiosa soddisfacente solo al 25%, poco di più giornali e tv (30%).

Giorgio Nadali


Le opere di misericordia spirituale. 1. Consigliare i dubbiosi

«Segui il consiglio del tuo cuore, perché nessuno ti sarà più fedele di lui» – dice il libro del Siracide (37,13) nell’Antico Testamento. A volte però non è così facile distinguere il bene dal male e fare delle scelte corrette, «perché anche satana si maschera da angelo di luce» (2 Corinzi 12,14). Si maschera da verità, lui che «è padre della menzogna» (Giovanni 8,44). “Se qualcuno di voi manca di sapienza – scrive San Giacomo – la domandi a Dio, che dona a tutti generosamente e senza rinfacciare, e gli sarà data. La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all’onda del mare mossa e agitata dal vento” (Giacomo 1,5-6). Siamo divisi tra ciò che vorremmo e ciò che dovremmo. Il relativismo è quella visione che mette sullo stesso piano ogni opinione personale. Tutto è valido e non esistono valori validi per tutti. Ciò che io ritengo bene è bene e ciò che io ritengo male è male. Io sono l’autore della mia morale personale, senza riferimenti ad un criterio oggettivo. Io divento il dio di me stesso, come vuole Satana (Genesi 3,5). Il relativismo porta a non comprendere che il bene e il male possono essere assoluti. Insomma, senza se e senza ma, Come dice Gesù: “Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno”. (Matteo 5,37).

Il dono del consiglio è molto importante oggi proprio perché è diffuso il relativismo, cioè la confusione tra bene e male. Siamo divisi tra ciò che vorremmo e ciò che dovremmo e confondiamo i nostri diritti con i nostri capricci. Il relativismo porta a non comprendere che il bene e il male possono essere assoluti. Insomma senza se e senza ma, Come dice Gesù: “Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno”. (Matteo 5,37). È uno dei tre mali filosofici della società moderna, che conduce di conseguenza alla nascita e diffusione di presunti (falsi) che si crede di avere e invece non si hanno. Mi invento quindi i diritti che mi fanno più comodo. Se non c’è più una norma oggettiva con la quale confrontarsi – che in ultima analisi è Dio stesso – tutto diventa possibile e diviene invece impossibile criticare e condannare anche il male più efferato non potendolo confrontare con la Verità assoluta. Tutto è possibile. Ma questa è la rovina dell’uomo. “Se Dio non esiste tutto è concesso” – scriveva Dostoevskij.

L’uomo si sostituisce a Dio e diventa lui stesso la fonte della norma morale e il suo egoismo diviene il punto di rifermento per ogni scelta. È ciò che voleva Satana nel racconto biblico di Adamo ed Eva: «Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male». (Genesi 3,5). La conseguenza è il terzo male filosofico moderno: l’individualismo etico. Io mi creo la morale che mi fa più comodo. Il peccato non esiste. Mentre per un cristiano c’è una sola Verità: Gesù Cristo. «Io sono la via, la verità e la vita» (Giovanni 14,6) «La verità vi farà liberi» (Giovanni 8,32). Il male rende meno uomini. Consigliare nella Verità chi è nel dubbio è agire nella carità per orientare le scelte verso il bene e quindi la felicità della persona. Consigliano i dubbiosi i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti illuminati da Dio, i direttori spirituali laici e religiosi  e chiunque abbia la competenza e la buona volontà di aiutare chi è nel dubbio. Durante la messa per eleggere il nuovo Papa – che sarebbe poi stato lui – il cardinale Joseph Ratzinger ricordò che «si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie. Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. È lui la misura del vero umanesimo».

Il relativismo nega i valori assoluti e mette nel dubbio le coscienze appiattendo ogni scelta etica come ugualmente valida e accettabile. Il suo predecessore – papa San Giovanni Paolo II – osservava nell’enciclica sulla fede e la ragione (Fides et Ratio) che «sono derivate varie forme di agnosticismo e di relativismo, che hanno portato la ricerca filosofica a smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo. Di recente, poi, hanno assunto rilievo diverse dottrine che tendono a svalutare perfino quelle verità che l’uomo era certo di aver raggiunte». Confondere le coscienze e il bene col male, lasciare l’uomo nel dubbio e “cambiare le carte in tavola” è una delle specialità di Satana. Difatti nell’enciclica sulla verità (Veritatis Splendor) scrive: «Chiamati alla salvezza mediante la fede in Gesù Cristo, “luce vera che illumina ogni uomo” (Gv 1,9), gli uomini diventano “luce nel Signore” e “figli della luce” (Ef 5,8) e si santificano con “l’obbedienza alla verità” (1 Pt 1,22). Questa obbedienza non è sempre facile.

In seguito a quel misterioso peccato d’origine, commesso per istigazione di Satana, che è “menzognero e padre della menzogna” (Gv 8,44), l’uomo è permanentemente tentato di distogliere il suo sguardo dal Dio vivo e vero per volgerlo agli idoli (cf 1 Ts 1,9), cambiando “la verità di Dio con la menzogna” (Rm 1,25); viene allora offuscata anche la sua capacità di conoscere la verità e indebolita la sua volontà di sottomettersi ad essa. E così, abbandonandosi al relativismo e allo scetticismo (cf. Gv 18, 38), egli va alla ricerca di una illusoria libertà al di fuori della stessa verità». «Che cos’è la verità?» si chiede Ponzio Pilato davanti a Gesù (Giovanni 18,38). Consigliare i dubbiosi è aiutare a trovare la verità. L’opposto del confondere le coscienze. La verità non ammette compromessi (“non dire falsa testimonianza” – ottavo comandamento) a costo della propria croce e a costo delle persecuzioni che possono arrivare dalla società e dalla cultura relativista nemica della Via, della Verità e della Vita (Giovanni 14,6). Il cristiano non ha la verità in tasca. L’ha nel cuore. Una sola Verità: Gesù Cristo.

Redazione